Un viaggio stupendo nelle terre di Greve in Chianti, attraverso le mie fotografie e il sapiente testo di Marco Hagge poi riprodotto in un bellissimo libro.
Le strade e i sentieri mettono in rete i luoghi storici, e individuano le tracce di quelli dimenticati: borghi fortificati di colline e mercatali di pianura, masserie d’altura e ” corti” agricole, spesso di origine romana, pievi antichissime e ville signorili, vigne e oliveti, boschi da frutto e da legno, pascoli e coltivi: una diffusa civiltà del costruire e del fare. Un caleidoscopio che l’obiettivo fotografico aiuta a interpretare ed apprezzare: perchè il mondo, prima che uno sfondo per i selfie, è una realtà da esplorare e da comprendere nella singolarità dei suoi innumerevoli crocevia.
Quando Marco Hagge e Andrea Rontini mi hanno presentato il loro progetto relativo a un libro fotografico su Greve in Chianti ho accettato immediatamente: è come se avessero intercettato la necessità, che avvertivo da tempo, di una pubblicazione che raccontasse il nostro territorio, per aiutare il lettore a scoprire una storia antichissima insieme ai nuovi itinerari che ogni giorno si aprono davanti a noi.In particolare, l’idea di individuare un percorso che, partendo dalla Piazza centrale del Capoluogo, attraversa tutto il territorio del nostro Comune, ritorna al punto di partenza, dopo avere portato alla ribalta tante realtà meno conosciute, al di fuori dei tradizionali percorsi turistici, ma non per questo meno importante dal punto di vista storico e culturale, mi ha davvero entusiasmato.
Il lettore si troverà a percorrere un viaggio che attraversa le frazioni piccole e grandi del nostro Comune, attraverso le immagini fotografiche di Andrea Rontini, “cacciatore” instancabile di paesaggi e di atmosfere (chiese, pievi, borghi, terrazzamenti, paesaggi, viabilità storiche, ecc.): un artista dell’obiettivo, che possiamo tranquillamente definire un grevigiano di adozione.
Mettere insieme il racconto di Marco con le fotografie di Andrea credo sia quanto di meglio si possa fare per descrivere il Comune di Greve in Chianti e mostrane la specificità ai molti visitatori che da ogni parte d’Italia e del mondo arrivano nel nostro territorio: oltre che un’operazione culturale, il volume diventa dunque un ulteriore importante strumento di promozione.
Sono convinto che questo libro riservi non poche sorprese anche ai grevigiani, e li convinca ad amare, conoscere e tutelare questo nostro patrimonio di cui noi per primi dobbiamo sentirci responsabili: grazie ancora agli autori per la proposta, e buon viaggio a tutti dall’Amministrazione Comunale.
PAOLO SOTTANI – Sindaco di Greve in Chianti
La Strada Infinita – Storie,percorsi, paesaggi nelle terre di Greve in Chianti -Ed. Polistampa 2022 – 176 pagine a colori, cm.24×31 cartonato con sovracoperta
IL MONDO IN UNA STRADA
A un centinaio di metri dalla Piazza centrale di Greve, incassata nel fondovalle, nel punto probabilmente meno panoramico dell’intero Comune, decolla la salita dell’antica Via Figlinese, bianca e di fatto pedonalizzata, da quando il traffico si è spostato su quella nuova: chi abita nelle case che ci si affacciano, può permettersi il lusso di utilizzarla come un corridoio esterno per raggiungere egli orti-giardini che si trovano sul lato opposto. Ma se si procede oltre, passo dopo passo, ci si renderà conto di avere imboccato una specie di teleferica pedonale: risalendo lungo la muraglia di una monumentale vigna a giropoggio si scoprono, di curva in curva, i versanti e i crinali dei colli che delimitano la Valle della Greve, il fiume che dà il nome al Capoluogo e all’intero Comune. Al termine della salita, nel punto in cui lo sterrato confluisce nell’asfalto della Provinciale, spunterà all’orizzonte il profilo azzurro dell’Appennino Tosco-Romagnolo: e a questo, se si prosegue verso il Valdarno, si aggiungeranno le cime delle Apuane, accompagnate dalla silhouette dei Monti Pisani. Infine, chi avrà ancora la voglia e il fiato per arrivare fino al Passo di Sugàme, vedrà dispiegarsi, a chiusura del cerchio, l’intero crinale del Pratomagno.
Ma una volta entrati nel circuito della viabilità campestre, il dòmino panoramico si dilata all’infinito. Sul Passo si intercetta il sentiero zero-zero del CAI, la direttissima pedonale che collega Firenze con Siena, seguendo il saliscendi dei monti del Chianti, fino al punto più alto, che coincide con il Monte San Michele: qui il panorama si allargherà ulteriormente, a Sud in direzione dell’Amiata, e ad Ovest verso la Montagnola Senese, in direzione della costa tirrenica.
Eppure si parla di quote più che modeste: 240 metri il fondovalle, poco più di 500 Sugame, neanche 900 Monte San Michele. Modeste, ma libere: intorno non ci sono ostacoli a chiudere la vista, che può abbracciare mezza Toscana in un colpo solo. Questa profusione panoramica può forse sorprendere, ma non stupire. Il Comune di Greve è il secondo per superficie nella provincia di Firenze: 169 chilometri quadrati virgola 4, piazzati esattamente nel cuore della Toscana. Non a caso, proprio sui Monti del Chianti, poco dopo il borgo di Torsoli, convergono in un unico punto le Province di Firenze, di Arezzo e di Siena. Ma questa centralità non vale solo per i panorami: vale anche – e forse soprattutto – per le strade.
LE STRADE E LA STORIA: SEGUIRE I NOMI
Come i paralleli e i meridiani individuano i luoghi geografici, così i tracciati stradali disseminati sul territorio mettono in rete i luoghi storici, e individuano le tracce di quelli dimenticati: che in questo pezzo di Toscana significano borghi fortificati di collina e mercatali di pianura; masserie d’altura e “corti” agricole, spesso di origine romana; pievi antichissime e ville da signore; vigne e oliveti; boschi da frutto e da legno; pascoli e coltivi: manufatti e testimonianze di una diffusa civiltà del costruire e del fare. Non isole perse nel nulla, ma organismi di un mondo in lenta ma continua trasformazione.
L’antica viabilità del territorio grevigiano è nata nei tempi in cui chi decideva di partire, come l’anziano capofamiglia di un celebre sonetto del Petrarca, veniva compianto anticipatamente da amici e parenti, quasi certi che il viaggio sarebbe stato di sola andata. Una guida turistica dei secoli andati ribadisce: mai partire senza aver fatto testamento. Con questi presupposti, non c’è da stupirsi se, per orientarsi lungo i percorsi antichi, una “segnaletica” fondamentale è quella relativa ai nomi dei santi, protettori dei viandanti e titolari degli “ospitali” che offrivano loro asilo e assistenza. Nel nostro caso, i nomi da tenere d’occhio sono due: Michele e Pietro. Il primo designa l’Arcangelo guerriero, protettore nazionale dei Longobardi, che presidia i luoghi elevati e solitari; l’altro è l’Apostolo scelto da Gesù come capo della Chiesa: la sua presenza segna quindi gli itinerari che portavano verso Roma.
Non è casuale, dunque, che il monte più alto del Chianti si chiami, appunto, San Michele. Come non è casuale che per dipingere l’immagine dell’Arcangelo nell’abside della chiesetta a lui dedicata sia stato chiamato un pittore in voga nella Firenze del primo Rinascimento: Paolo di Stefano Badaloni, detto Schiavo (cioè “slavo”, probabilmente per l’origine della famiglia), collaboratore di Masolino da Panicale, che a sua volta fu maestro del grande Masaccio. La scelta segnala a sua volta l’importanza del percorso, che una volta lambiva, a breve distanza, due grandi abbazie vallombrosane oggi scomparse, a Monte Scalari (in direzione di Firenze) e a Monte Muro (in direzione di Siena). Da qui l’ipotesi che questo tratto viario facesse parte del “Cammino dell’Angelo”, la rete dei percorsi che attraversava diagonalmente l’Europa, da Mont Saint-Michel in Francia fino a Monte Sant’Angelo sul Gargano: entrava in Italia attraversando le Alpi piemontesi alla Sacra di San Michele, ed, evidentemente, toccava anche la dorsale del Chianti.
Questa ipotesi viene ribadita da una terza abbazia vallombrosana, la più importate del Chianti, che esiste tuttora: San Michele a Passignano. Si trova ad Est, appena oltre il confine con il Comune di Tavarnelle, lungo la strada detta “dei Poggi”, che corre sul crinale fra i versanti della Val di Greve e della Val di Pesa. Al bordo di questa strada, sul versante di Greve, entra in scena anche l’altro nome “segnaletico”: la Pieve di San Pietro a Sillano. Appartata e seminascosta, chiusa al culto da almeno 60 anni e oggi a rischio di crollo, nei rilievi messi a punto per il progetto di restauro si è rivelata come una delle più antiche del Chianti: risale al IX secolo, l’epoca di Carlo Magno. E la strada per Roma? C’era, e c’è ancora: quella che, deviando da qui verso Passignano, scende nella Valle della Pesa e si ricongiunge alla Via Francigena.
Ma di strade per Roma, nel Comune di Greve ce n’era un’altra: passava da Cintoia (denominazione che deriva, non a caso, dal latino centuria), dove esiste, in effetti, una seconda pieve intitolata a San Pietro. Era la cosiddetta Cassia Adrianea, che, prima di scendere nella Valle dell’Arno, attraversava l’attuale Strada in Chianti (un nome che più viario non si può). Come quella di Sillano, anche questa pieve è chiusa da tempo; ma le dimensioni ragguardevoli e la posizione bene in vista ne attestano l’importanza, confermata dall’imponente fonte battesimale di cui era dotata: un grande monolito ottagonale scolpito nell’arenaria, risalente al IV secolo – dunque, il più antico manufatto del Comune – sistemato adesso nel portico della chiesa parrocchiale del Capoluogo.
Intorno a questi percorsi “internazionali”, ricalcati lungo la rete viaria sopravvissuta all’Impero romano, si articolava la viabilità locale: un anello dove si integrano strade ancora esistenti, e altre di cui nel bosco emergono, come relitti di un naufragio, tratti di selciato ancora in opera; ma anche percorsi campestri, sentieri, e perfino le piste della transumanza. Un sistema complesso e variegato, come il territorio che attraversa.
GLI STANZIAMENTI E IL “MUSEO DIFFUSO”
Il Comune attuale nasce infatti nel 1773, col decreto granducale che aggrega l’antica Lega della Val di Greve a quella di Cintoia, riunendo così un doppio patrimonio: la varietà dei paesaggi e la ricchezza degli insediamenti militari, religiosi e civili. Se infatti il territorio della antica Lega di Cintoia e Val di Rubbiana, stretto fra i monti che lo dividono dalla valle dell’Arno, è dominato dai castelli feudali, con pochi e piccoli insediamenti civili, la valle della Greve è ideale per l’attività agricola.
Ieri come oggi, la prima preoccupazione di chi domina un territorio è quella di controllarlo: in altri termini, di spiarlo. Ciò che oggi si fa “da remoto”, con la tecnologia digitale, una volta, lo si faceva “in presenza”, con la vista, attraverso – appunto – il sistema dei “guardinghi”: un dòmino di segnalazioni a distanza, di giorno con gli specchi, e di notte con il fuoco. Nella valle della Greve, la postazione militare più importante si trovava in riva sinistra del fiume: il Castello (o, più precisamente, Terra Murata) di Monteficalle, ribattezzato per motivi eufonici Montefioralle, oggi inserito nel club dei Borghi più belli d’Italia. Una micro-città, dotata di tre porte d’accesso, dove, risalendo dalla piazzetta alla piccola acropoli del Cassero, si può sperimentare, da un altro punto prospettico, e molto più concentrato, l’effetto che lungo la Vecchia Figlinese si diluisce nelle curve del percorso: da qui, per vedersi spuntare davanti la vetta del Pratomagno basta salire poche rampe di scale.
Tuttavia, per controllare il fondovalle e i versanti che rimangono coperti alla vista, servivano delle postazioni intermedie. Le prime, a monte di Greti, sono i castelli di Verrazzano e di Vicchiomaggio, abbarbicati sui lati opposti della gola sul fondo della quale, lungo la Greve, passa la strada per Firenze; si continua, risalendo il corso del fiume in riva sinistra, con la casa da signore, fortificata e turrita, di Colognole; mentre in riva destra si allineano il Castello di Uzzano, il castrum di Melazzano, fino al Castello di Montagliari e a quello di Lamole (con il borgo della Castellinuzza come punto intermedio). A chiusura del sistema, sul crinale tra la Valle della Greve e quella della Pesa, si trova il Castello di Panzano: la sua torre segna ancora oggi il punto più alto in quota sulla direttrice Firenze-Siena.
Una sequenza analoga si ripresenta nel territorio della Lega di Cintoia, lungo la valle dell’Ema, con la filiera visiva Sezzate – Mugnana – Cintoia, altrettanto importante per il controllo delle strade tra il Chianti e il Valdarno, e infatti disputata da famiglie importanti come i Guidi, i Bardi e gli Alamanni. Di questi presìdi militari alcuni si sono conservati; altri, dopo l’inurbamento forzato dei nobili, si sono trasformati in dimore signorili o fattorie. Altri ancora sono stati abbandonati, e a volte, come al cosiddetto Castellaccio di Lucolena, ne riemergono dal bosco le pietre che non sono state riciclate nel tempo per l’edilizia civile.
Molto più lineare si presenta invece l’uso degli edifici religiosi, che per la popolazione segnavano le principali tappe della vita: il battesimo, il matrimonio, il funerale. Si tratta di un patrimonio notevole, e, a differenza di quello militare, interamente pubblico: sommando le parrocchie portate in dote dalla Lega di Cintoia a quelle della Val di Greve, il nuovo Comune ne contava ben 58, per altrettante comunità diffuse in maniera capillare un territorio ricco di attività e di abitanti: ben 8849 nel 1833, rispetto ai 14mila circa di oggi.
La disponibilità economica dei “popoli” e dei “patroni”, rafforzata dalla vicinanza con città d’arte come Firenze e Siena, ha arricchito nel tempo i luoghi di culto, e contemporaneamente li ha trasformati: la gran parte delle chiese chiantigiane, soprattutto quelle dei capoluoghi, sono state sottoposte a un più o meno radicale restyling, prima sobriamente barocco e poi decisamente neogotico o comunque neo-qualcosa. Paradossalmente, l’unica chiesa parrocchiale che conserva l’aspetto originale è quella più recente, cioè la Propositura di Greve, inaugurata nel 1838, progettata in stile neoclassico dall’architetto Luigi Cambrai Digny, ministro dei Lavori Pubblici del Granduca Leopoldo II di Lorena. Quanto alle chiese più antiche, quella che meglio conserva l’aspetto romanico delle origini è la Pieve di Panzano, intitolata a San Leolino. Il record di anzianità spetta invece alla già citata Pieve di Sillano, dove gli spazi interni non sono mai stati modificati, anche se il lungo abbandono ne ha minato seriamente la stabilità.
Il patrimonio artistico che apparteneva alle chiese non più celebrate è raccolto ed esposto, in buona parte, nel Museo d’Arte Sacra di Greve, un ex-convento affacciato sulla scorciatoia che dal cuore del Borgo Fiorentino sale in direzione di Montefioralle, con pendenze da record e panorami che ne valgono la pena. Tuttavia le opere pittoriche più importanti del territorio sono conservate nelle chiese di riferimento: a Panzano, a Greve, a Strada, a Mugnana, a Montefioralle. Quest’ultima è anche la più sorprendente: nella ventina di metri dell’unica navata sono concentrati otto secoli di storia dell’arte. Una mini-galleria che si apre con una tavola raffigurante la Madonna col Bambino, dipinta nel XIII secolo dal cosiddetto Maestro di Montefioralle, da identificare probabilmente con Meliore di Jacopo.
Una notevole collezione di arte sacra si trova anche nella Parrocchiale del Capoluogo, che annovera anche un raro bassorilievo, che oggi si definirebbe site specific, raffigurante la Sacra Famiglia. Segno dell’importanza attribuita all’edificazione della Propositura, è firmato da Pio Fedi, che alla metà dell’Ottocento era considerato l’erede di Canova, tanto che gli venne concesso l’onore di collocare un suo celebre gruppo scultoreo nel cuore di Firenze, nella Loggia dei Lanzi, accanto al Perseo del Cellini.
Conclude la serie la già citata Pieve di San Leolino a Panzano, che, oltre a una collezione di opere di altissima qualità, conserva anche l’originario aspetto romanico, e si affaccia, attraverso un elegante loggiato rinascimentale, sulla spettacolare Conca d’Oro. Denominazione, questa, che può sembrare uno slogan pubblicitario, ma che è invece la denominazione tradizionale del luogo: indicava il colore del grano nell’epoca, tutt’altro che remota, delle colture miste, anteriori alla specializzazione vitivinicola, sui colli dove si trovava anche uno dei tanti poderi che i Gherardini, nonni materni di Monna Lisa, possedevano tra la Valle della Pesa e quella della Greve.
DAI CASTELLI AL MERCATALE. LA STORIA SCENDE A VALLE
Lo sviluppo decisivo del Comune coincide con gli anni centrali dell’Ottocento: alle attenzioni dimostrate dall’ultimo Granduca toscano, sono subentrate quelle dei primi governi italiani. E’ il momento in cui nasce la prima strada carrabile da Greve a Lamole, un luogo a insediamento diffuso, che, a rigor di termini, non esiste come tale: il nome indica infatti le “lame” di terra depositate fra i colli dalle frane preistoriche, sulle quali si articolano una serie di insediamenti disposti su vari livelli altimetrici. Un territorio destinato a una storia enologica di prim’ordine, e oggi inserito nella lista nazionale dei paesaggi rurali storici.
Ma, soprattutto, col Regno d’Italia nasce – o, più precisamente, viene riorganizzata, la Via Chiantigiana, l’odierna Strada Regionale 222: i suoi 61 chilometri, considerati fra i più belli d’Italia, partono da Firenze, e terminano a Siena, dove confluiscono nella Via Cassia, nel tratto in cui una volta coincideva con la Francigena.
La paternità della Chiantigiana ha un nome ed un cognome: quelli del barone Bettino Ricasoli, secondo Presidente del Consiglio del Regno d’Italia. Come il predecessore Cavour, dal suo feudo nelle Langhe, aveva dato impulso allo sviluppo vitivinicolo del Piemonte, così, dalla tenuta di Brolio, il Barone di Ferro seguiva personalmente quello del Chianti. Un vino per il quale il Granduca Cosimo III, nel 1716, aveva istituito per decreto la prima denominazione d’origine della storia, e che dal 1924 è tutelato dal Consorzio del Chianti Classico. Oggi come allora, con i suoi rari rettilinei e il suo ricchissimo campionario di curve, la Chiantigiana, procedendo in parallelo con le antiche vie di crinale, tocca i tre centri principali del Comune (da Nord a Sud: Strada, Greve, Panzano), e immette in tutte le altre: a Strada nelle due Provinciali che portano a San Polo e a Cintoia; a Greti in quella che, attraverso il Ferrone e la zona del Cotto, porta verso Firenze; a Greve, nella Chianti-Valdarno; a Panzano, nella Strada dei Poggi. Su questo schema si innesta la viabilità minore, originando così un circuito virtualmente infinito, dove ogni tratto, a seconda del punto di vista, può diventare centro o periferia.
Ma un territorio così articolato e diffuso ha bisogno di un punto di riferimento. E dove, se non sul fondovalle? Qui, lungo la Greve, dalla quale prende il nome, nasce il capoluogo, nel punto in cui si incrociano i tre percorsi principali (per Firenze, per Siena, per il Valdarno). Prima della “discesa a valle”, però, il centro principale dell’attuale Comune si trovava in quota: era il Castello di Panzano, già residenza dei Firidolfi, e oggi dimora storica. L’antichità dell’insediamento, indicato nei documenti più antichi col nome di Flacciano, è testimoniata anche dalla chiesa intitolata a Sant’Eufròsino, il primo evangelizzatore del Chianti. Qui sono venuti alla luce quelli che, dopo il Fonte di Cintoia, possiamo considerare i manufatti artistici più antichi del territorio: due pilastrini e una lastra in arenaria, risalenti al IX secolo, e decorati con motivi geometrici molto elaborati: probabilmente facevano parte della recinzione che delimitava il presbiterio.
Il Castello di Panzano ha avuto una vita movimentata anche quando diventò un avamposto della Repubblica fiorentina: se prima era stato attaccato dai senesi dopo la battaglia di Montaperti, venne poi assediato dalle truppe aragonesi che attraversarono il Chianti ai tempi di Lorenzo il Magnifico. Proprio per la sua posizione strategica, il Castello di Panzano segna il capolinea della Strada dei Poggi, un tempo la via più importante verso Firenze: scende nella Valdi Pesa, tocca San Casciano e Sant’Andrea in Percussina, prima di confluire nella Via Cassia. Fra i tanti viandanti anonimi che l’hanno percorsa, ce n’è uno, Fròsino da Panzano, “certificato” da Niccolò Machiavelli, che lo ricorda in una famosa lettera, indirizzata a Francesco Vettori dal suo podere dell’Albergaccio, il 10 dicembre 1513: l’ex Segretario della Signoria lo accusa di millantare debiti di gioco per ottenere uno sconto sul prezzo pattuito per una catasta di legna.
Lungo la Strada dei Poggi
Oggi il crocevia, reale e simbolico, del Comune, è un luogo votato non alla guerra, ma al commercio: la Piazza centrale di Greve, che ogni sabato mattina, da oltre sette secoli, dà appuntamento col suo mercato settimanale. Ai tre vertici del triangolo allungato, scosceso e porticato convergono, per quanto travestite dalla toponomastica risorgimentale, le tre direttrici principali: l’antico Borgo Senese (oggi Via Garibaldi), quello Fiorentino (oggi Via Roma) e la Via Figlinese (la già citata Provinciale 16 Chianti-Valdarno). Ma qui confluiscono anche le vestigia di una viabilità ancora più antica, che resiste sotto forma di scorciatoie o di tragitti pedonali, come l’antica Via Figlinese, dalla quale abbiamo cominciato il nostro viaggio.
Visto dall’alto, con i tetti che disegnano il triangolo al quale i loggiati offrono dignità urbanistica e insieme garanzia di riparo in caso di solleone o di pioggia, l’antico mercatale di Montefioralle, strappato faticosamente alle esondazioni del fiume, si mostra inequivocabilmente come un impluvio storico-geografico, dove l’urbanità “fiorentina” dello spazio – isola commerciale, “borghese”, nel mare dei possedimenti agricoli – è attestata dai due edifici principali, che si fronteggiano sui lati opposti della piazza: a Mezzogiorno la Chiesa, dalle forme ispirate al Quattrocento, e col soffitto identico a quello della Basilica di Santo Spirito, e a settentrione il Palazzo Comunale, che nella facciata cita, in versione semplificata, quella di Palazzo Strozzi. La vicinanza a Firenze è ribadita dallo stemma comunale, nel quale compare l’Agnello Mistico, simbolo di San Giovanni Battista, patrono del Capoluogo toscano e garante del saggio aureo del Fiorino (da cui il detto: “San Giovanni non vuole inganni”).
La vicinanza con Firenze è richiamata anche dal monumento dedicato a Giovanni da Verrazzano, umanista e navigatore, che scoprì la baia del fiume Hudson, dove oggi si trova New York, dove gli è stato dedicato il ponte omonimo. Nel pantheon dei grevigiani in carriera, Giovanni si trova in buona compagnia: la lista comprende Zanobi da Strada, letterato e diplomatico internazionale, collega di Francesco Petrarca; e Giovanni Ciampoli (la sua casa di famiglia è affacciata sulla Piazza di Greve), prelato pontificio, accademico dei Lincei, sostenitore del sistema eliocentrico dell’amico Galileo Galilei, e come lui caduto in disgrazia dopo il celebre processo dell’Inquisizione.
Oggi la Piazza presenta i caratteri di un tipico luogo-calamita, insieme teatrale e scontroso, dove, in alternanza col mercato, si continua a celebrare l’altro grande rito italiano, quello del passeggio: il palcoscenico al quale ciascuno può accedere, e recitarvi la parte che preferisce. Il luogo ideale per fare due passi ribadendo che si stava meglio quando si stava peggio, rimpiangendo le mezze stagioni ormai latitanti, e, in attesa di sapere dove andremo a finire, concedersi una sosta per ritemprarsi con un caffè.
CORSI E RICORSI: DAI CAMPI ALL’INDUSTRIA E RITORNO
Ma perché il territorio grevigiano è riuscito a conservare l’aspetto attuale? Ce lo dicono i censimenti dello Stato italiano. In quello del 1861, nel Comune abitavano circa 11.000 dei 22 milioni di abitanti del Regno: esattamente come in quello tenuto cent’anni dopo, nel 1961. Il picco della popolazione era stato toccato nel 1911: 15.000 abitanti, cifra rimasta sostanzialmente stabile fino agli anni Quaranta, e leggermente superiore a quella attuale. Questa stabilità demografica ha evidentemente determinato quella urbanistica, contenendo il consumo del suolo e salvando il paesaggio dallo stravolgimento.
Alle strade tradizionali, percorse dalla pubblica diligenza a cavalli, nel 1893 si era aggiunta la ferrovia, simbolo della modernità. La tramvia a vapore rimase in funzione fino al 1935, quando venne sostituita dal servizio su gomma. Partiva da Piazza Beccaria, transitava sul Ponte di Ferro (attuale San Niccolò), saliva sul Viale dei Colli fino a Porta Romana, e, attraverso la Via Cassia, toccava la stazione dei Falciani, da dove si diramavano le due tratte: quella che portava a San Casciano e l’altra che, lungo il fiume, proseguiva per Greve, toccando il Passo dei Pecorai e il Ferrone, dove, da tempo immemorabile, si estrae e si lavora l’argilla, con risultati di eccellenza. La commessa più prestigiosa, ancora in essere con l’Opera del Duomo di Firenze, riguardava (e riguarda) le maxi-tegole progettate dal Brunelleschi per la Cupola della Cattedrale di Santa Maria del Fiore. I manufatti, eseguiti secondo le regole stabilite del grande architetto, vengono portati a “stagionare” sui tetti corrispondenti alle navate della Cattedrale, dove rimangono fino a quando non raggiungono un colore omogeneo rispetto a quello delle tegole da sostituire.
Alla fermata successiva, il Passo dei Pecorai, snodo dei percorsi della transumanza dal Mugello e dal Casentino in direzione della Maremma, si era stabilito, all’inizio del secolo scorso, il cementificio di Testi: oggi, chiusa l’attività, ha lasciato in dote una ferita profonda al paesaggio, che si annuncia tutt’altro che facile da sanare. Tuttavia, neanche il cemento è riuscito a bloccare l’esodo dai campi verso la città: all’inizio degli anni Ottanta i residenti nel Comune hanno toccato il minimo storico, calando a quota 10.000: meno che nel 1861, ma in un’Italia dove gli abitanti erano quasi triplicati.
Da allora, con il boom del turismo enogastronomico e ambientale, la popolazione è risalita verso quota 14.000, contemporanea con la ripresa delle attività tradizionali: agricoltura, commercio, artigianato. Se dunque il paesaggio si è mantenuto sostanzialmente integro, il merito, paradossalmente, si deve a una sfida persa, quella dell’industrializzazione. In parallelo, negli ultimi decenni anche i mostruosi vigneti a rittochino, emblema dell’agricoltura intensiva e della scommessa “quantitativa” degli anni Settanta, sono stati progressivamente abbandonati: simbolo di questa svolta ambientale e paesaggistica sono i colli di Lamole, dove è nata una vera e propria accademia dei muretti a secco, diventata oggetto di studio internazionale.
L’IMMAGINE DEL CHIANTI
Ci si potrebbe anche chiedere perché il Chianti, così fotogenico, non abbia suscitato interesse “artistico” come paesaggio “pittoresco” fra i paesaggisti dell’Ottocento. Non in Toscana, fra iMacchiaioli, che pure, oltre alla costa livornese si sono spinti fin verso l’Appennino, e, con Signorini, addirittura verso le Cinque Terre; e neanche fra i loro epigoni, quando, nei decenni successivi, la pittura ha scoperto la Versilia, le Apuane e la Garfagnana, mentre all’elenco si aggiungevano molti altri territori, in Italia e in Europa. Le immagini del Chianti che fu si devono alle fotografie degli Alinari, mossi evidentemente da interesse soprattutto documentario e antropologico. In effetti, a ben guardare, il Chianti non si può definire “pittoresco” nel senso tradizionale, venato di sentimentalismo e spettacolarità. Qui la natura non è mai “selvaggia”: niente montagne scoscese, niente laghi in cui le vette possano eventualmente specchiarsi, ma geometrie che sembrano tirate con riga e compasso, conservate da una manutenzione costante, quotidiana, fatta di gesti sapienti, anonimi e ripetitivi: elementi tutt’altro che “spettacolari”, e certamente “anacronistici” nel mondo impaziente della socialità globalizzata.
Questo paesaggio, che il Comune di Greve condivide con gli altri Comuni del Chianti, nasce da un confronto costante con il ritmo delle stagioni, i caratteri dell’ambiente e le ragioni dell’economia. Un confronto talmente assiduo, intenso, profondo, che in Chianti un terreno incolto viene considerato una deplorevole eccezione: è un “sodo”: superficie inutilizzata, senza qualità, abbandonata a se stessa, ignota alla regola della cura paziente e continua.
Alla disposizione delle tessere di questo mosaico vivente hanno contribuito anche le modalità con cui nel Chianti le proprietà sono passate di mano. Nelle transazioni economiche (lo testimoniano i documenti d’archivio) l’unità di misura dei beni – campi, vigne o boschi che siano – non si ferma alla misura del lotto, ma prosegue enumerando i filari, e perfino le singole piante, fino ad assegnare un ulivo o un castagno in comproprietà a due o più persone. Quanto alle disposizioni testamentarie, il capofamiglia cercava la par condicio frantumando i terreni in base alle loro condizioni pedologiche e climatiche: ciascuno degli eredi doveva ricevere il giusto mix di terreno meglio o peggio esposto, più o meno redditizio, più o meno facile da coltivare.
La compattezza del modello chiantigiano non conosce eccezioni: coinvolge l’utilizzazione dell’erba che, attraverso la pratica del “sovescio”, diventa concime, e, ovviamente, non trascura la coltivazione dei boschi, che si legge ancora, in autunno, nella magnificenza di quello che oggi si usa chiamare foliage. L’iridescenza dei colori racconta la ricchissima biodiversità della vegetazione, che deriva, a sua volta, dalla messa a dimora di specie scelte sulla base delle diverse funzioni – legname da costruzione, legna da ardere, alberi da frutto, e così via piantando. Una tavolozza stagionale che dialoga col fondo cromatico dei verdi perenni, scuro l’uno e argenteo l’altro, gentilmente offerti dai cipressi e dagli ulivi.
A ogni elemento, insomma, il proprio ruolo, meglio ancora se plurimo: a partire proprio dai cipressi, veri e propri alberi-custodi, che, ben visibili da lontano, bastavano a segnare i confini, permettendo di risparmiare le pietre per terrazzare i versanti dei colli. Ma oltre a quello della visibilità, i cipressi presentano ulteriori pregi: non ombreggiano i coltivi, e, all’occorrenza, ordinati in doppia fila, servono a delineare i viali di accesso alle ville e alle fattorie. A loro volta, case coloniche e fattorie non sono né edifici monumentali, né complessi scenografici, bensì “macchine” per abitare e lavorare.
Nessun “mistero” da svelare, in questo mondo lineare e concreto, ma regole da seguire con grande pazienza: casomai, a meravigliarci sono la loro evidenza, la loro – apparente – semplicità. Il concetto stesso di privacy non ha senso in un territorio dove, storicamente, la concorrenza tra vicini si misura non sulla coazione a sbarrare, chiudere e nascondere, ma sulla capacità di terrazzare, drenare, ordinare, piantare e raccogliere – possibilmente, un po’ meglio del vicino.
Non bisogna dimenticare, infine, che questo è un paesaggio fatto anche di stagioni, di atmosfere e di luci. Un caleidoscopio di sensazioni che affascina e confonde – come si intersecano e si confondono i percorsi, collegandosi e confluendo gli uni negli altri – da catturare e meditare con l’aiuto di un obiettivo fotografico: un suggerimento per riflettere che il mondo non è un accessorio per la mesta ripetitività dei selfie, ma si offre come una realtà da esplorare e da comprendere nella irriducibile singolarità dei suoi innumerevoli crocevia.
LAVORI IN CORSO
Un territorio antropizzato è un organismo vivente, naturale e storico insieme. Come tale, richiede un’attenzione continua che ne preservi l’equilibrio e il carattere, e che può avere molte facce: quella della tutela ambientale, quella del restauro, o quella della riscoperta. Da questo punto di vista, nel Comune di Greve l’agenda dei prossimi anni vede ai primi posti tre cantieri, di lavoro,di studio e di restauro. Riguardano rispettivamente un monumento (la Pieve di Sillano), uno scavo archeologico (il castellaccio di Lucolena) e un paesaggio rurale storico (le “terrazze” di Lamole).
LA PIEVE DI SILLANO
Il primo documento che la cita risale all’anno 884: una data che fa di San Pietro a Sillano una delle chiese più antiche del contado fiorentino. Non a caso, il suo impianto originario ricalca quello di Santa Reparata, la prima cattedrale di Firenze. La qualità dell’architettura e del materiale utilizzato ne fanno un capolavoro dello stile romanico. La singolarità dell’impianto è data anche dai pilastri, disposti in maniera asimmetrica, ma la perizia dell’architetto (probabilmente un maestro Comacino) riesce a trasformare l’irregolarità in un elemento che di forza spaziale e di unità prospettica. Poiché la chiusura al culto ha avuto luogo prima della riforma liturgica, l’aspetto dell’interno è rimasto quello originale. Il progetto di restauro si propone innanzitutto di mettere in sicurezza l’edificio, a serio rischio di crollo, e di qualificare l il contesto esterno e permetterne la visita.
IL CASTELLACCIO DI LUCOLENA
La differenza fra “castelli” e “castellacci” è semplice e brutale: alla prima categoria appartengono quelli che, per quanto trasformati o addirittura abbandonati, sono comunque rimasti in piedi; all’altra, quelli che hanno subito l’onta della distruzione con relativo smantellamento. La cortina difensiva del Castellaccio di Lucolena venne demolita nei primi anni del Trecento dal Comune guelfo di Firenze per punire il proprietario, Cante da Lucolena, che parteggiava per i ghibellini. Lo scavo archeologico, iniziato da qualche anno, ha rivelato una poderosa struttura fondata in epoca etrusco-romana e ampliata nel Medio Evo, a partire dal X secolo: le varie fasi sono documentate dai ritrovamenti di ceramiche e monete, che consentono di datarne le vicende. La fortificazione, una delle più grandi della zona, controllava le direttrici viarie in direzione Est/Ovest (Valdarno/Chianti) e Nord/Sud (Firenze/Siena), come testimonia del resto la sua eccellente posizione panoramica; e costituisce un tassello importante per ricostruire la rete viaria e quindi la storia di un’area cruciale nel cuore della Toscana.
LE “TERRAZZE” DI LAMOLE
La qualità del vino di Lamole è attestata già nel Rinascimento: era presente sulla mensa di Lorenzo il Magnifico. Il pregio del prodotto è legato in maniera inscindibile a quello del paesaggio e degli impianti a terrazze. Le pietre eliminate dal terreno nella fase di dissodamento, e utilizzate per terrazzare i versanti dei colli, trattengono il calore del sole e lo restituiscono durante la notte, permettendo la coltivazione dell’uva ad altezze inconsuete, fino a 700 metri slm. Recuperata dopo la deludente esperienza degli impianti “a rittochino” in voga negli anni Settanta, la coltivazione a terrazze è tornata in auge negli ultimi decenni, e viene studiata a livello internazionale come esempio perfetto di integrazione fra clima, equilibrio idrogeologico e attività agricola. I colli di Lamole fanno parte della Rete Nazionale dei Paesaggi Agricoli Storici, tutelati dal Ministero della Politiche Agricole e Ambientali col patrocinio dell’Unione Europea.