Questo volta ho deciso di ospitare sul mio blog un caro amico che conosco da trent’anni ….
e che ho sempre seguito ed apprezzato nei suoi racconti sulle bellezze italiane. Parlo di Marco Hagge, scrittore e giornalista Rai che ha coordinato per tanto tempo “Bellitalia”, la rubrica della Rai sui Beni Culturali del nostro Paese. La nostra amicizia è stata suggellata anche da due prefazioni che ha scritto per i miei libri: La Fotografia del Chianti, ed. 2003 e Firenze, ed.2018.
Marco, dopo aver visto i miei blog sulle tre perle ripolesi che conosceva, Fonte alle Fate, Oratorio di S.Caterina e lo Spedale del Bigallo, ha detto che voleva farmi un regalo scrivendo un suo articolo su questi temi e naturalmente sono stato molto felice, ancora una volta di leggere e poi pubblicare questo racconto con la sua riconoscibile e pungente ironia.
- Che il luogo sia interessante, lo dice il nome scelto per designarlo: quello delle donne che una volta, nelle campagne, sapevano riconoscere le erbe salutari per curare i malanni quotidiani. Il Poggio di Fattucchia, nei dintorni di Grassina, prende infatti il nome (aggiungendoci una “t”) dalle fatucchie, che (come i loro colleghi uomini, detti fatucchi) erano considerate esseri misteriosi e benevoli, come le fate appunto: a loro era affidata quella che oggi si chiamerebbe “medicina del territorio”, visto che quella ufficiale preferiva le città, dove la clientela era più numerosa e certamente più ricca.
Siamo nel Comune di Bagno a Ripoli, punto di passaggio fra la Città metropolitana e il Chianti, dove il paesaggio, modellato nei secoli, assume l’aspetto di un giardino, dominato dai due toni di verde inequivocabilmente toscani, quello pallido dell’olivo e quello carico del cipresso.
Da qui parte questo itinerario in tre tappe, che nel giro di pochi chilometri tocca tre monumenti tanto belli quanto isolati, e di fatto ignorati dai visitatori che nell’era pre-Covid si affollavano nel caos dei centri storici: i protagonisti, per intendersi (o meglio, le vittime) del turismo mordi-e-fuggi, ostinatamente coltivato ed evidentemente traditore, visto la desertificazione di Firenze nei tempi della pandemia.
Il punto di partenza è appunto, a monte di Grassina, un edificio dal nome suggestivo: la Fonte della Fata Morgana. Un gioiello che nasce negli anni Settanta del Cinquecento da una intuizione di Bernardo Vecchietti, discendente da una antica casata fiorentina. Consulente del Granduca, uomo di cultura, di gusto e di grandi mezzi, convoca Jean de Boulogne (l’artista fiammingo che, dopo avere studiato le opere di Michelangelo a Roma, mette su casa e studio a Firenze, dove diventa il Giambologna) per realizzare un ninfeo rustico sotto la dimora di campagna sul Poggio della Fattucchia, che ha ribattezzato “Il Riposo”.
Il Ninfeo c’è ancora, quasi una apparizione per chi arriva, costruito intorno a una polla d’acqua, dal nome suggestivo: la Fonte della Fata Morgana. Una denominazione che riassume il nome del luogo, il gusto dell’epoca per l’alchimia e le scienze naturali (spesso ancora”occulte”, se non altro perché in gran parte ignote), e quello parallelo per le architetture d’acqua. Una fonte benevola, quindi, che non viene blindata, come oggi succede con tutto quello che riguarda i cosiddetti VIP, ma ne valorizza anche la funzione di servizio pubblico: come dimostra, al centro, lo zampillo per i viandanti, e, a destra, l’abbeveratoio per gli animali.
“Morgana” è un nome di origine celtica: Morgan, che significa “cerchio del mare”. In italiano è diventato anche nome comune, a indicare fenomeni dal sapore misterioso, come le illusioni ottiche causate talvolta dai riflessi del sole. In effetti, anche la nostra Fonte (che gli storici dell’Arte indicano come “Ninfeo del Giambologna”) appare un po’ come una visione fra gli olivi e i terrazzamenti della campagna ripolese. L’esterno è decorato a finti mattoncini rosa, che risaltano, vivaci ma non chiassosi, sulle tonalità dei verdi del contorno, e contrastano in maniera suggestiva con le pietre grezze scelte per i bugnati. Su questa valenza “magica” gioca, con raffinata autoironia, il committente, nell’iscrizione posta sul getto d’acqua della nicchia centrale: “Io son quella, lettor, fata Morgana / Che giovin qui ringioveniva altrui:/ qui del Vecchietto, poiché vecchia fui, / Ringiovenita colla sua fontana”.
Il piccolo complesso, perfetto esempio rinascimentale di architettura ambientale, ha un interno climatizzato, a prova di canicola: ce lo dice la seduta di pietra lungo la parete pavimentata a ciottoli, intorno al basamento a coda di sirena che sosteneva la statua realizzata dal Giambologna.
Venduta nel Settecento a un facoltoso viaggiatore inglese, è ricomparsa in un’asta del 1989, dove venne riconosciuta appunto come opera dell’artista fiammingo. Ma anche gli altri locali di servizio, estesi al piano superiore, fanno pensare a una utilizzazione intensa nelle giornate più calde dell’estate.
Donato al Comune in stato d’abbandono nel 1996, il Ninfeo è stato sottoposto a un accurato restauro, che avrebbe dovuto segnarne la seconda vita come attrazione culturale e turistica. Avrebbe dovuto. Purtroppo, come spesso succede in Italia, Paese brillante nelle inaugurazioni, ma molto meno nelle manutenzioni, l’auspicio non si è realizzato: lo confermano le condizioni assai precarie del tabernacolo sulla strada che dal Ninfeo porta allaVilla.
Villa “Il Riposo” ripresa da via delle Cupole.
Ma proprio per questo, il complesso si presenta ancora con il fascino della scoperta.
Un fascino che, come vedremo, condivide con le tappe successive del nostro itinerario.
Quella successiva ci porta a valle, alle pendici del Colle di Baroncelli, lungo la Via del Carota, che congiunge Ponte a Ema a Osteria Nuova, nel punto in cui confluiscono nel fiume i torrenti (rii, come ci indicano i nomi) dai fiorentinissimi nomi di Rimezzano e Ritortoli. Meta del percorso, una chiesetta trecentesca, tanto di basso profilo all’esterno, quanto sorprendente all’interno. E’ l’Oratorio di Santa Caterina delle Ruote, voluto alla metà del Trecento dalla potente famiglia degli Alberti, accanto a una delle tante case padronali che possedevano nella zona.
Il piccolo edificio, che si presenta nella sua modesta livrea di filaretto di pietra alberese mista a macigno nasconde uno dei cicli di affreschi più belli dell’area fiorentina.
Raccontano la storia di Santa Caterina d’Alessandria, martirizzata in Egitto col supplizio della ruota, che diventa il suo emblema, utilizzato poi anche per distinguerla dalla più celebre omonima senese.
La scelta del soggetto si deve forse anche al fatto che nella famiglia degli sponsor molti esponenti avevano esercitato l’attività giudiziaria: particolare che si adattava alla storia della Santa, nella quale vediamo la protagonista coinvolta in continue vicende processuali dalla polizia dell’Imperatore. Alternati a quelli relativi a Caterina, sulle pareti e i soffitti della navata, sull’abside e sulla scarsella, sono rappresentati episodi della storia sacra e numerose raffigurazioni di santi.
A questo sfolgorio cromatico contrasta la prima delle due campate di cui è composta la navata, che si presenta dimessa nel suo intonaco ocra, assolutamente spoglia. Il motivo è squisitamente politico: nel groviglio continuo delle lotte che dividono i fiorentini, a un certo punto gli Alberti si ritrovano dalla parte sbagliata, e vengono esiliati. In realtà, la famiglia, dove la cultura è di casa (qualche decennio dopo ne farà parte Leon Battista, il designer rinascimentale per antonomasia) lascia il denaro sufficiente per completare la decorazione, ma gli artisti preferiscono committenti più sicuri, in presenza si direbbe oggi: una volta interrotti, gli affreschi non saranno mai portati a termine.
Ma i danni più gravi li ha fatti la “ristrutturazione” (fra molte virgolette), a cui viene sottoposto l’edificio non da un vandalo, ma dal rettore che se ne prende cura all’inizio del Seicento. E’ una cura drastica e demenziale: messer Francesco di Maria Venturi (questo il nome) fa costruire una sacrestia; aprire un passaggio vicino all’altare per arrivarci; imbiancare gli affreschi dell’abside; praticare una seconda apertura per collegare l’Oratorio con l’edifico attiguo.
Nessuna considerazione per il fatto che gli affreschi siano stati eseguiti da artisti importanti come il Maestro da Barberino, Spinello Aretino e Pietro Nelli: senza contare Agnolo Gaddi, autore del trittico posto sull’altare, che, rubato, ritrovato ed esposto agli Uffizi, è adesso sostituito da una copia.
E’ l’inizio di un lungo periodo di decadenza e di cambi di proprietà, durante il quale l’Oratorio sarà trasformato perfino in deposito agricolo: fino a quando, nel 1988, l’Amministrazione Comunale riesce ad acquisire l’immobile. Due anni di accurati restauri (1996/98) salvano il salvabile, che francamente è molto, e molto bello. Ma anche in questo caso, la scommessa è stata vinta a metà: l’accesso è difficile, la logistica scomoda; negli edifici vicini, rimasti di proprietà privata, non è stato possibile realizzare strutture d’accoglienza, né omologare la scelta dei toni cromatici fra gli edifici, né, tantomeno, salvare questo angolo incantato dal morbo delle cupole di plastica che, viste dal drone, rivelano la loro triste geometria da enorme porta-uova.
In ogni caso: anche se organizzarle non è facilissimo, le visite sono possibili: chi vi è riuscito, confermerà senz’altro che ne vale la pena.
La terza e ultima tappa del viaggio ci riporta in quota, lungo una strada che sale con una pendenza spettacolare. Quando ci si volta a guardare a valle, si apre allo sguardo una immagine stupefacente: Firenze vista come si potevano vedere le nostre città italiane prima che venissero imprigionate dalle periferie dilagate senza ordine né metodo. Già: perché dietro il Poggio di Fattucchia, dietro i colli che proteggono l’Oratorio di Santa Caterina, è nascosta, vicinissima, la città, che da qui sboccia nel fondovalle come una fioritura di tetti e di torri lungo il corso dell’Arno.
Siamo arrivati all’antico Spedale del Bigallo, lungo l’antica Via Aretina, che portava verso il Valdarno superiore. Un’area di sosta medievale, fondata all’inizio del XIII secolo per assistere i viandanti, e affidata nel 1245 in gestione alla neonata Compagnia Maggiore della Beata Vergine Maria. Anche in questo caso, la struttura nasce ad opera di un benefattore: Dioticidiede di Bonaguida del Dado. Secondo la tradizione, il fondatore, dal nome lunghissimo e doppiamente augurale, avrebbe fatto parte di una potente famiglia ghibellina, i Lamberti, ma non c’è nessun documento che lo dimostri: tanto più che all’epoca i Lamberti portavano nomi assai meno lunghi e soprattutto più aggressivi, come Mosca e Tafano, entrambi citati da Dante.
Buio pesto, o quasi, anche sull’origine del nome Bigallo: forse deriva da “Bivio del Gallo”, ipotesi verosimile, visto che si sta parlando di viaggiatori e di strade. Un luogo ben scelto, per l’aria buona, e soprattutto per una sorgente copiosa, dal bel nome di Fonteviva, che esiste ancora oggi, fondamentale in una struttura ricettiva di grandi dimensioni, come testimoniano i locali restaurati in occasione del Giubileo del 2000: lo spettacolare refettorio, col soffitto a cassettoni; la cucina monumentale, con camino e acquai originali; la camerata, con i tradizionali letti a cassoni in legno.
Dopo due secoli e mezzo di onorato e indisturbato servizio, il Bigallo si trasforma in condominio: nel 1490 vengono trasferite nel complesso le monache di clausura del Monastero di Casignano (oggi Rignano sull’Arno). Inevitabile il conflitto coabitativo fra le esigenze dell’Ospedale, fatto per richiamare gente, e quelle del monastero, fatto per allontanarle. Lo dimostrano le mura perimetrali con la quale lo spazio riservato alle monache venne recintato per isolarlo fisicamente dal resto del complesso.
La fine, comunque, sarà ingloriosa per tutti: nel 1754 viene soppresso l’ospedale (la Compagnia era già stata assegnata da tempo a quella ben più potente e strutturata della Misericordia, che accanto alla sede, nella Piazza del Duomo, conserva appunto la Loggia del Bigallo); infine, nel 1808 Napoleone sopprime il monastero. Per il complesso comincia una lenta decadenza, finché, nel 1920, viene acquistato dal Comune di Bagno a Ripoli per farne una casa di riposo, e soprattutto per utilizzare la ricca sorgente per rifornire il pubblico Acquedotto .
Dopo anni di abbandono, furti e vandalismi assortiti, in occasione del Giubileo del 2000 al Bigallo sono stati restaurati i locali destinati all’Ostello per viaggiatori “lenti”, gestito dalla Cooperativa “le Rifiorenze”. Nell’occasione vennero restaurati anche la Cappella e gli spazi del complesso indicati come “Bigallino”, usati per conferenze e convegni. Resta invece da recuperare il seminterrato che ospita i lavatoi, con l’ingegnosa canalizzazione delle acque per il bucato.
Tre tappe, tre gioielli, acquisiti dalla comunità e a loro tempo restaurati con cura; non “restituiti all’antico splendore”, come si usa dire, perché quello non esiste più: gli anni, gli agenti atmosferici, le modifiche imposte dagli usi sono irreversibili. Tuttavia è proprio il passaggio del tempo e delle persone che dà valore a ciò che il passato ci lascia: i restauri, uniti a una manutenzione rispettosa e a una frequentazione costante, salvano, riparano, conservano; trasformano in bene pubblico realtà dimenticate; rendono accessibili luoghi dove storia e ambiente, arti e memorie convivono in un contesto di alto valore culturale. Percorrere un itinerario come questo è anche un’ottima occasione per rendersi conto che il mondo non è il fondale per un selfie, ma una palestra di conoscenza e di scoperte. La Fonte, l’Oratorio e lo Spedale ci raccontano la storia di un paesaggio scampato alla devastazione, e la lungimiranza del Comune che ne ha permesso la sopravvivenza. Non segreti da difendere, dunque, ma beni da rendere accessibili a tutti: come speriamo che prima o poi possa avvenire.
MARCO HAGGE
Ringraziamenti e Note
Desidero ringraziare, con un grande abbraccio, Marco Hagge per aver prestato la sua penna a corredo delle mie foto sul territorio di Bagno a Ripoli e sui tre gioielli culturali menzionati.
Sarebbe interessante creare, attraverso i gruppi trekking, i gruppi cicloturistici e le guide turistiche, un itinerario segnalato che colleghi questi tre beni culturali di Bagno a Ripoli. Questo permetterebbe di conoscere o di far riscoprire queste nostre meravigliose bellezze artistiche favorendo a Bagno a Ripoli quel turismo lento e consapevole che il nostro territorio può ospitare e favorire.
Per chi volesse rivedere i miei blog già pubblicati su questi temi.
Fonte della Fate https://blog.andrearontini.it/fonte-della-fata-morgana-un-restauro-per-restituire-la-sua-antica-bellezza/
Oratorio di S.Caterina https://blog.andrearontini.it/loratorio-di-s-caterina-delle-ruote-un-gioiello-darte-a-bagno-a-ripoli/
Antico Spedale del Bigallo https://blog.andrearontini.it/antico-spedale-del-bigallo/